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I ristoranti e le ricette della tradizione milanese


Stintino: spiagge incantevoli, aragoste, e feste tradizionali

LA PASTICCERIA NAPOLETANA



I dolci sono qualcosa in più di una semplice dedica al palato: rappresentano un profumato appuntamento con la memoria, un calorico frammento di vita vissuta che rievoca ricorrenze, domeniche solari, quieti riposi pomeridiani ed allegre feste con parenti ed amici.

Il dolce, parla direttamente all'anima con le sue infinite varietà di creme, di sfoglie, di glasse, di pan di spagna, di liquori inebrianti.

E se questo è vero per la pasticceria nazionale, lo è ancora di più per quella napoletana, dove l'esplosione degli ingredienti si sposa con la fantasia delle forme e dei colori.

Così la pastiera con il suo inconfondibile profumo primaverile richiama la Pasqua passata in famiglia; struffoli e le chiacchiere i coriandoli e l'allegria delle maschere carnevalesche; la cassata, il napoletano presepio o l'anglosassone albero di Natale; le sfogliatelle - sia frolle che ricce -, le interminabili visite a zie e cugini accompagnate dall'immancabile limoncello o dal più caldo ed austero caffè; il babà rindondante di rum, l'iniziazione da fanciullo ad adulto e così via.

Ognuno, infatti, nasconde nel profondo del proprio cuore il ricordo di una fetta di torta, di una pasta reale, di una zeppola (semplice o di San Giuseppe) di un'aromatica crema chantilly, di un'atmosfera di cacao, di una candida e zuccherina glassa, di una bianca e lattosa panna.

Ricordi chiari o vagamente indistinti fatti di forme barocche come quelli degli sciù al cioccolato o al caffè; dei forti contrasti di colore dei confetti sui nudi struffoli o del pistacchio o delle ciliegine lungo i bordi della cassata; delle liquidità trasbordanti delle amarene della santarosa; dei profumi persistenti di bollenti sfogliatelle dorate, di raspose durezze mandorlate, di austeri lamè di zucchero caldo annidati intorno a bombe fritte e graffe; di calde, spartane e mattutine brioches.
Ma la pasticceria napoletana non è fatta solo di storie individuali. E' grave anche il segno che le vicissitudini politiche hanno lasciato alla città. Greci, romani, normanni, svevi, francesi, inglesi, spagnoli: ogni dominazione ha impresso una propria traccia nella storia culinaria napoletana.
Come gli struffoli, il dolce più antico che la tradizione possa annoverare, la cui origine risale alla Palepoli greca quando un impasto di acqua e farina, gli struggolos, veniva lasciato friggere nell'olio bollente e poi, tagliato in pezzetti, cosparso di miele fuso. O come la ricetta della chiacchiere, descritta per la prima volta da Apicio, uno dei più raffinati buongustai dell'antichità nel suo ricettario De re coquinaria.

Dal secolo VII il primato della pasticceria passa invece dalle botteghe ai conventi.
E' l'epoca dei dolci soffici e leggeri ma anche di vere e proprie delizie del palato come la santarosa, cugina maggiore della sfogliatella, che la tradizione vuole essere stata inventata nell'omonimo convento di Conca dei Marini. Impossibile, al riguardo, citare tutte le invenzioni attribuite alle abili mani di suore e novizie. Ne ricorderemo, quindi, solo alcune: i susamielli dell'antichissimo convento di Donna Regina, le monachine del monastero delle Trentatrè di via Pisanelli, la pasta reale del convento delle Maddalene, le sapienze del monastero di Santa Maria della Sapienza.

Più politico, invece, il tradizionale babà portato dai francesi a Napoli ma la cui invenzione è attribuita nel secolo XVIII secolo a Stanislao Leszczynski, re polacco celebre più per la raffinata gastronomia che per il breve governo.
Il dolce conserva ancora il nome originale traducibile in "vecchia signora", probabilmente per la mollezza della pasta particolarmente adatta ai senza denti.

Così, attraverso i secoli, dominazione dopo dominazione, la pasta per i dolci è diventata fritta, frolla, sfoglia, bignè, brioche, pan di spagna, pasta babà. Poi, nel 1860, con l'unità d'Italia e la caduta delle frontiere tra i vari Stati, i dolci napoletani sono diventati patrimonio nazionale, andando ad arricchire i pranzi dell'intera penisola. Ma anche dopo l'unità del Paese il genio culinario napoletano non conobbe tregua. L'ultimo viaggio del nostro brevissimo viaggio nella storia della pasticceria ci porta infatti tra i banconi delle botteghe di via Toledo, quando, nel 1819, Pasquale Pintauro (noto ristoratore napoletano) trasformò i locali della sua celebre trattoria in una più raffinata pasticceria inventando la tradizionale sfogliatella, versione "povera" della santarosa più adatta però ad accompagnare i napoletani nelle loro passeggiate domenicali.

Ma adesso basta con la storia dei sapori. E' giunto il momento di tuffarsi nelle ricette perchè se è vero che "la pratica vale più della grammatica" vedrete che, assaggio dopo assaggio, diventerete veri professionisti della tradizione dolciaria napoletana. Così quando qualcuno con una delle tante espressioni colorite napoletane, vi dirà che "Siete proprio un babà", con aria navigata gli risponderete: "Sì, ma di quale tipo? Semplice, alla creme, alla panna? Lungo, tondo, a fontana? Secco, bagnato? Polacco, francese, napoletano?". Perchè la pasticceria di Napoli è un'arte che segue regole e canoni precisi, secondo cui un babà non può mai essere solo un babà...
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Giampaolo Infusino (da: La tradizione nella pasticceria napoletana; Napoli 2000)

Altre ricette: la zuppa inglese alla napoletana; i roccocò, i biscotti all'amarena.



E' tutto oro quel che luccica?

 

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